IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  nella  causa  penale  contro
 Fantoni  Mario imputato del delitto p. e p. dagli artt. 81, 519 e 521
 del  c.p.  per  avere,  con  violenza,  costretto  Ferri  Federica  a
 congiunzione  carnale  e per avere, nello stesso modo, compiuto su di
 lei, in piu' occasioni, atti di libidine, palpeggiandole i seni e  le
 cosce.
    In Castelnuovo di Garfagnana, dal dicembre 1990 al gennaio 1991.
    Tratto  a  giudizio  per  rispondere del delitto continuato di cui
 all'epigrafe, Fantoni  Mario  e'  comparso  dinanzi  al  collegio  e,
 interpellato  in ordine alla circostanza di volersi o meno sottoporre
 all'esame  richiesto  dal  p.m.,  ha  negato  il  proprio   consenso,
 impedendo  con  cio'  l'espletamento di un mezzo di prova al quale la
 stessa difesa, in  prima  battuta  (all'atto  cosi'  delle  richieste
 preliminari  ex  art.  493  del  c.p.p.),  aveva  ritenuto  di  dover
 ricorrere   per   poi   rinunciarvi   in   esito   allo   svolgimento
 dell'istruzione.
    La  rilevanza,  nel presente giudizio, di siffatta assunzione, non
 e' seriamente contestabile, atteso che l'intera vicenda sottoposta  a
 verifica  dibattimentale  gravita  attorno  alle  dichiarazioni della
 persona offesa Ferri Federica; sentire le  discolpe  dell'imputato  a
 fronte  delle  accuse  mossegli  dal soggetto passivo dell'ipotizzata
 violenza sessuale e' allora, nella specie,  assolutamente  necessario
 al  fine  di  chiarire  taluni  punti oscuri non altrimenti colmabili
 sotto il profilo istruttorio, e dunque pervenire, in un  processo  di
 parti, al corretto esercizio della giurisdizione.
    Nell'impossibilita'  di  valutare  in  modo  alcuno, neppure quale
 semplice argomento di prova, il contegno  dell'imputato,  che  si  e'
 avvalso  della  facolta'  contemplata  dagli  artt.  208 e 503, primo
 comma, del c.p.p. con l'effetto di comprimere il diritto-dovere delle
 parti  e  del  giudice  all'assunzione di mezzi di prova rilevanti ai
 fini della decisione, ritiene  il  tribunale  di  dover  rimettere  a
 codesta  Corte  la  questione  di  legittimita'  costituzionale delle
 citate disposizioni codicistiche per contrasto con  l'art.  76  della
 Costituzione.   Ad   avviso  del  collegio  infatti  le  disposizioni
 anzidette, nel prevedere che l'esame  dell'imputato  possa  svolgersi
 solo  su richiesta e con il consenso di questo, violano i principi ed
 i criteri posti dall'art. 2, dir. 69 e 73, della legge di delegazione
 n. 81/1987 quale norma interposta tra la Costituzione ed  il  decreto
 legislativo  con cui il codice e' stato emanato, e dunque necessitano
 del sindacato di costituzionalita' sotto il profilo  dell'eccesso  di
 delega.
    All'esame   dell'imputato,   chiamato  a  sostituire,  nel  codice
 accusatorio del 1988, l'interrogatorio dibattimentale senza  tuttavia
 condividerne  i  requisiti di necessarieta', e' dedicata la direttiva
 73 della legge delega la quale, testualmente, recita: "esame  diretto
 dell'imputato,  dei  testimoni  e  dei  periti  da parte del pubblico
 ministero e dei difensori,  con  garanzie  idonee  ad  assicurare  la
 lealta'  dell'esame,  la  genuinita' delle risposte, la pertinenza al
 giudizio e il  rispetto  della  persona,  sotto  la  direzione  e  la
 vigilanza  del  presidente  del  collegio o del pretore, che decidono
 immediatamente sulle eccezioni; previsione che l'esame dei  testimoni
 minorenni possa essere effettuato in ogni momento dal giudice, tenute
 presenti  le  esigenze  di  tutela  della  personalita';  potere  del
 presidente, anche su richiesta di altro componente il collegio, o del
 pretore di indicare alle parti temi nuovi od  incompleti  utili  alla
 ricerca della verita' e di rivolgere domande dirette all'imputato, ai
 testimoni  ed ai periti, salvo in ogni caso il diritto delle parti di
 concludere l'esame; potere del giudice di  disporre  l'assunzione  di
 mezzi di prova".
    Il testo della direttiva 73 va coordinato con quello della dir. 69
 che,  nella  prospettiva  del  modello accusatorio, configura apertis
 verbis il diritto alla  prova  come  paradigma  dell'attivita'  delle
 parti:  un  diritto  attorno  al  quale  ruota l'essenza stessa della
 dinamica  processuale,  cui  corrisponde  l'obbligo  del  giudice  di
 assumere  le  prove  che  le  parti richiedono salva la superfluita':
 "disciplina della materia della prova in modo idoneo a  garantire  il
 diritto  del  pubblico  ministero  e  delle parti private ad ottenere
 l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova richiesti,  salvi  i
 casi manifesti di estraneita' ed irrilevanza".
    E'  agevole  osservare  come in nessuna delle menzionate direttive
 sia previsto che all'esame dell'imputato - mezzo di prova  in  quanto
 tale  non  sottoposto a condizioni sospensive quali l'espletamento di
 una manifestazione di volonta' - possa farsi luogo solo su  richiesta
 dell'esaminato o su suo consenso.
    E  cio',  in  un  processo  che ruota attorno al tema della prova,
 tanto  da  legittimare  da  parte  di   piu'   di   un   commentatore
 l'affermazione  per  cui nel nuovo codice, e' contemplato il "diritto
 delle prove penali" come "esempio di un apparato di regole probatorie
 inserito in un sistema di civil law", e' tutt'altro che irrilevante.
    Si aggiunga che la  direttiva  5  dello  stesso  provvedimento  di
 delega  legislativa, dedicata al diverso istituto dell'interrogatorio
 della persona sottoposta ad indagini, impone che la disciplina  delle
 modalita'  dello  stesso sia congegnata "in funzione della sua natura
 di strumento di difesa".
    Orbene, dalla lettura combinata di tali direttive andavano tratte,
 ad avviso del collegio, le seguenti deduzioni sistematiche.
    A  differenza  dell'interrogatorio,  atto  procedimentale non piu'
 indefettibile ai fini  del  rinvio  a  giudizio,  mediante  il  quale
 l'organo  procedente  comunica  al sottoposto alle indagini l'oggetto
 dell'accusa, ne assicura  l'identita'  e  ne  consente  le  discolpe,
 l'esame  dibattimentale  costituisce innanzi tutto un mezzo di prova.
 Solo in aggiunta a tale funzione, ed  in  via  residuale  rispetto  a
 questa,  e'  possibile affermare che l'esame condivide la funzione di
 strumento di difesa che e' propria  dell'interrogatorio  e  che,  nel
 dibattimento,  e'  garantita  dal diritto dell'imputato di rendere in
 ogni  momento  le  dichiarazioni,   riferentisi   all'oggetto   della
 imputazione, che egli ritiene opportune.
    Se,  quindi, l'interrogatorio mira in primo luogo a garantire, nel
 corso delle investigazioni,  l'effettivo  esercizio  del  diritto  di
 difesa  della  persona  sottoposta  ad indagini, e dunque deve essere
 disciplinato  con  modalita'  tali  da  consentire  all'inquisito  di
 contraddire  l'accusa,  previa  presa  di  coscienza  dell'oggetto di
 questa e delle indagini,  l'esame  dell'imputato,  cosi  come  quello
 delle  restanti  parti private, dei testimoni, dei periti ecc., trova
 la sua massima valorizzazione in relazione al thema probandum.
    Rispetto a questa strumentalita' funzionale la  legge  delega  non
 pone  condizioni.  Le  parti,  ma  anche  il giudice (dir. 73, ultima
 parte), nello  svolgimento  dell'attivita'  istruttoria  ancora  oggi
 tendente alla ricerca della verita' (dir. 73:
 "  ...  potere del presidente, anche su richiesta di altro componente
 il collegio, o del pretore  di  indicare  alle  parti  temi  nuovi  o
 incompleti  utili alla ricerca della verita' ..") hanno il diritto di
 ottenere l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova  richiesti,
 compreso   l'esame   dell'imputato,   salvi   unicamente  i  casi  di
 estraneita' ad irrilevanza.
    In  siffatto  contesto,  stante  la   posizione   di   centralita'
 attribuita  alle parti sul piano dell'iniziativa probatoria, e stante
 il residuale diritto-dovere del giudice di assumere  mezzi  di  prova
 utili  alla  ricerca  della verita', ogni condizionamento del diritto
 alla prova che vada al di la' dei casi di estraneita' ed  irrilevanza
 e' fuori delega e dunque incostituzionale.
    Nondimeno,  l'art.  208  del  c.p.p.  (ma  anche l'art. 503, primo
 comma, stesso codice)  prevede,  in  aggiunta  al  c.d.  jus  tacendi
 dell'imputato  in  ordine  a  singole  domande  (artt.  64, 65 e 209,
 secondo comma, del c.p.p.), la assoluta volontarieta' dell'esame che,
 quindi, in termini dissonanti  rispetto  al  quadro  sistematico  che
 dianzi   si   e'   delineato,   puo'   svolgersi  solo  su  richiesta
 dell'imputato  stesso  o  su  suo  consenso.  Cio'   significa   che,
 nell'impianto  del  codice,  l'esame  non  e', a differenza di quanto
 concepito nel testo della delega, un mezzo di prova in se' e per  se'
 considerato, ma lo diventa solo subordinatamente all'esercizio di una
 manifestazione di volonta' dell'esaminando.
    La  conseguenza  di  codesta  disciplina  e' tanto evidente quanto
 devastante  sotto  il  profilo  del   diritto   alla   prova.   Essa,
 attentamente  intesa,  travalica  non  solo  i principi-criteri della
 legge di  delegazione,  ma  altresi'  i  confini  della  logica  piu'
 elementare.
    L'imputato,  destinatario  del  diritto  di  difesa,  non  solo ha
 facolta' di non rispondere,  in  nome  di  tale  diritto,  a  singole
 domande al fine di non procurare elementi di autoaccusa nel corso del
 processo   (il   c.d.   privilege  against  self  incrimination),  ma
 addirittura ha la facolta' di sottrarsi alle domande senza che a cio'
 consegua alcun potere  valutativo  del  giudice,  ancorche'  di  mero
 contorno rispetto ad emergenze processuali risultanti aliunde; con la
 conseguenza  che e' a lui demandato il potere di impedire, con un suo
 atto di volonta', l'espletamento  legittimo  di  un  mezzo  di  prova
 rilevante e pertinente al tema processuale.
    L'estensione  di  una  tale  facolta' mortifica, in un processo di
 parti, l'essenza dell'esame quale strumento di prova  incondizionato,
 senza  trovare  giustificazione  alcuna neppure sulla sua ulteriore -
 eppero' residuale - funzione  di  strumento  di  difesa.  Invero,  il
 diritto  di difesa dell'imputato trova logica garanzia nell'esercizio
 del jus tacendi inteso come facolta'  di  non  rispondere  a  singole
 domande,  e  cioe'  nel  diritto di tacere su circostanze dalle quali
 potrebbero emergere elementi di accusa  utilizzabili  contra  se;  ed
 inoltre   nell'assenza   dell'obbligo   di  verita'  nelle  risposte,
 conformemente alla regole del nemo tenetur  se  detegere:  ed  infine
 nella  facolta'  di rendere dichiarazioni spontanee in ogni stato del
 dibattimento. Tant'e' che proprio in siffatti, indefettibili, criteri
 di garanzia trovano alimento le disposizioni ex artt. 64, 65,  209  e
 494 del c.p.p. che appunto prevedono la facolta' dell'imputato di non
 rispondere  alle  domande  che  a  lui  siano  rivolte,  nel contempo
 disciplinando il diritto di interloquire in ogni momento sull'oggetto
 dell'accusa.
    Di contro, la limitazione contenuta negli artt. 208 e  503,  primo
 comma  del  c.p.p.,  nell'inibire  addirittura che all'imputato siano
 poste  domande   in   mancanza   di   un   suo   consenso,   comprime
 inammissibilmente.- e senza giustificazione alcuna - il diritto delle
 parti  e  del  giudice  di  avvalersi dell'esame quale mezzo di prova
 rilevante per la  decisione:  soprattutto  impedisce  al  giudice  di
 valutare  il  rifiuto  dell'imputato  di  sottoporsi  all'esame  alla
 stregua di argomento di prova nel perimetro del principio  di  libero
 convincimento,  inibendo  la  valorizzazione  in  senso probatorio di
 elementi a suo carico idonei a suffragare un giudizio di colpevolezza
 mediante la verifica della  portata  significativa  del  silenzio  da
 costui mantenuto su circostanze suscettibili di scagionarlo.
    Tutto   quanto  esposto  induce  a  ritenere  che  il  legislatore
 delegato,  nel  condizionare   in   senso   assoluto   l'espletamento
 dell'esame  dell'imputato  al  consenso  di  questi  in  nome  di una
 garanzia  difensiva  gia'  adeguatamente  salvaguardata  mediante  il
 diritto  di  non rispondere a singole domande (artt. 64, 65 e 209 del
 c.p.p.) e l'ulteriore diritto di non rispondere secondo verita',  sia
 andato  oltre  i limiti sostanziali posti dalla legge di delegazione.
 Legge che, nel disciplinare  l'esame  dell'imputato  quale  mezzo  di
 prova  in  se' e per se' considerato (dir. 73), sul presupposto di un
 potere di iniziativa istruttoria delle parti condizionato  unicamemte
 al  rispetto  dei  requisiti di non manifesta irrilevanza della prova
 dedotta (dir. 69), non consentiva l'inserimento, nel codice,  di  una
 limitazione quale quella in argomento.
    In   buona   sostanza,  nello  schema  di  dialettica  processuale
 concepito dal legislatore  delegante,  l'esercizio  globale  del  jus
 tacendi  dell'imputato  non poteva essere dissociato - come invece e'
 statuito nel codice - dal  diritto  delle  parti  e  del  giudice  di
 valorizzare   in   senso  probatorio  -  anche  se,  ovviamente,  non
 confessorio - il silenzio di costui.
    Il contrasto tra le disposizioni denunciate e l'art. 2, dir. 69  e
 73  della  legge  16  febbraio 1987, n. 81, comporta l'illegittimita'
 costituzionale in parte qua  delle  norme  anzidette  per  violazione
 dell'art. 76 della Costituzione.
    Non   resta   allora   che   rimettere  la  questione  alla  Corte
 costituzionale previa sospensione del giudizio in  corso.  Vedra'  la
 Corte  se,  ed  in che misura, il sindacato debba estendersi ad altre
 disposizioni oltre quelle denunciate.